TAMOSSIFENE sotto ACCUSA per le DONNE SANE
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Ancora
una battuta d'arresto per il tamossifene (farmaco utilizzato per i
tumori al
seno).
Dopo l'allarme lanciato l'anno scorso dalle pagine del
Journal of the National Cancer Institute da Mitchell Gail (vedi Tempo
Medico numero 651, pagina 4), uno studio olandese conferma l'esistenza
di un aumento netto del rischio di cancro
all'endometrio nelle donne che assumono il farmaco a
lungo termine per un tumore della mammella - vedi:
Pericolo
Farmaci
Lo
studio riassume i dati ottenuti paragonando circa 300 donne che avevano
sviluppato una neoplasia uterina dopo essere state malate di cancro
mammario a quasi 900 pazienti con tumore della mammella, ma con un utero
sano.
La prima diagnosi risaliva almeno al 1976, anno in cui la maggior
parte dei centri olandesi ha iniziato a proporre l'uso del tamossifene. I
risultati parlano chiaro:
il rischio di sviluppare un cancro all'utero
per chi ha fatto uso di tamossifene è in media di 1,5 volte superiore a
quello di chi non ne ha mai assunto, e aumenta in maniera progressiva
con la durata del trattamento. Infatti, chi si è sottoposto alla
terapia per più di cinque anni vede crescere di circa sette volte la
probabilità di avere una neoplasia uterina.
L'osservazione
più preoccupante è però un'altra:
i tumori che si sviluppano nelle
donne trattate con il tamossifene per un tempo prolungato sono spesso più
maligni e invasivi, vengono riconosciuti in fase avanzata, inquadrati
allo stadio III e IV della classificazione ufficiale, e presentano anche
un'alta percentuale di sarcomi e di tumori mesodermici misti maligni (MMMT),
molto difficili da curare.
Tutto
questo comporta una diminuzione della sopravvivenza.
«Anche
se i numeri sono piccoli, la statistica conferma che c'è differenza tra
chi ha seguìto la terapia e chi non l'ha mai assunta» commenta
Liesbeth Bergman, epidemiologa dell'Istituto dei tumori olandese e
coordinatrice dello studio.
«Inoltre,
il nostro studio contraddice ciò che si pensava finora, e cioè che il
tamossifene tendesse ad aumentare il rischio di tumori uterini, ma che
questi fossero per lo più di un tipo istologico a prognosi più
favorevole».
Lo studio del 1999 a cura di Mitchell Gail, che aveva partecipato a un
workshop sul BCPT ai National Cancer Institutes di Bethesda, aveva già
dimostrato come il farmaco, presentasse effetti collaterali molto gravi,
quali tumori endometriali, ma anche ictus ed embolia polmonare.
E'
interessante notare come il pericolo di sviluppare un tumore uterino
aumenti con l'aumento della durata del trattamento, mentre sembra essere
indipendente dalla dose di farmaco assunta ogni giorno. Per di più, non
è modificato nemmeno da altri fattori di rischio noti quali il
sovrappeso, l'obesità, o l'assunzione di terapia ormonale sostitutiva
per la menopausa. Inoltre, l'intervallo tra la sospensione della terapia
e l'insorgenza della malattia non ha alcuna influenza, quasi a
dimostrazione del fatto che il rischio, potenzialmente, non finisce mai.
Il
commento che accompagna l'articolo della Bergman, a cura di Karen Gelmon,
della British Columbia Cancer Agency di Vancouver, in Canada, individua
alcuni punti deboli dello studio olandese, sui quali si dovrà
concentrare la ricerca futura. Uno di questi è il fatto che lo studio
ha avuto inizio circa 25 anni fa, quando non era ancora nota
l'associazione del tamossifene con i tumori uterini.
Il grande numero di
casi di neoplasie ad alta malignità potrebbe essere pertanto imputabile
a un ritardo nella diagnosi, che oggi si verifica molto meno spesso
grazie alla consapevolezza maggiore degli oncologi nei confronti di
questo rischio.
Sintesi
tratta da: Tempo Medico (n. 679 del 11 ottobre 2000)
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