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GUIDA  alla  SALUTE con la Natura

"Medicina Alternativa"   per  CORPO  e   SPIRITO
"
Alternative Medicine"
  for  BODY  and SPIRIT
 

 
 


Il Canto degli STREGONI
 

BREVI CONSIDERAZIONI sull’EVOLUZIONE del PENSIERO FITOTERAPEUTICO - vedi:  FITOTERAPIA 2

L'impiego delle piante medicinali in molte realtà culturali del mondo è ampiamente riconosciuto.   
A questo  proposito,  noti  professionisti  ed  importanti  istituti,  si  sono dedicati all'approfondimento di studi sul tema, sia in senso globale che per analisi di aree individuali. Questi  studi,  di  carattere  scientifico,  sono  orientati,   in  generale,   all'introduzione  di   queste importanti  risorse naturali  di  cui  la gente usufruisce nella pratica dei  servizi  sanitari  delle società   moderne.

Molti dei rimedi che oggi vengono utilizzati per curare malattie e disturbi di vario genere ci sono stati tramandati  da monaci e monache, da appassionati e osservatori, da  “streghe” "stregoni" e "curanderos", vissuti moltissimi anni fa e, se si prova ad utilizzarli, i loro benefici ci sorprendono ancora  oggi. 
Proprio per verificare la fondatezza di  certe terapie quasi  miracolose, alcuni ricercatori  di  varie  università europee,  hanno condotto  numerose  indagini e,  con  l'ausilio dei più moderni  mezzi  di  ricerca,  hanno verificato quanto potessero essere efficaci  i  rimedi terapeutici elaborati  nelle selve,  nei conventi,  sulle montagne e  in  tanti  altri  luoghi  del  pianeta.

Per fare questo insolito esperimento sono stati immessi nel computer tutti i dati riguardanti la composizione di  alcune  piante da secoli  utilizzate dalle medicine tradizionali,  poi sono stati inseriti gli elementi  più  significativi di  alcune ricette antichissime.    
L'elaborazione di  questi due dati ha fornito  risultati  veramente sorprendenti: l'80% delle  indicazioni  delle ricette  sono esatte; si è scoperto, per esempio, che alcune erbe medicinali usate in passato contenevano alcuni elementi utili per la modulazione e la stimolazione del sistema immunitario.

Ormai si avverte che la medicina tradizionale debba avere uno spazio ben definito all'interno della medicina scientifica, come del resto i prodotti farmaceutici di ricerca hanno il proprio, pur essendo   spesso   considerati   complementari.

La natura concede la propria ricchezza all'osservatore umano. Questo è il primo passo; poi, attraverso la propria esperienza, i guaritori possono imparare a distinguere tra la molteplicità dei vegetali  esistenti,  quelli  che hanno  proprietà  curative.    
Negli  anni,  queste conoscenze, trasmesse di  generazione  in  generazione,  vanno perfezionandosi  e  molte  di  esse  risultano efficaci, pur senza essere sottoposte ai  rigore scientifico dei test clinici  controllati o di altre prove farmacologiche o tossicologiche.

L'industria farmaceutica di  ricerca,  a  sua volta,  raccoglie alcune di queste esperienze primitive; cerca di trovare  una  ragione scientifica specifica,  ne  isola  i  principi  attivi,   li analizza, li sottopone a test di  laboratorio,  li sottopone a importanti  prove farmacologiche  utilizzando cavie.   
Se con questi mezzi si dimostra che il prodotto è promettente da un punto di vista terapeutico,  si  iniziano  i  test sugli esseri  umani, sotto  la stretta  sorveglianza di scienziati di varie discipline e altamente qualificati.    
In  seguito, queste ricerche vengono ampliate  in  un lungo processo che dura in  media dodici anni e rappresenta un investimento consistente nel tentativo di  raggiungere  un  medicamento  efficace,  sicuro e tollerabile.

C'è da tenere presente, però, una cosa che ho avuto modo di constatare personalmente durante le mie ricerche:    nel caso della pianta chiamata usualmente "unghia di gatto", si sono rilevate varie componenti chimiche, ma nessuna di esse, isolatamente,  ha mostrato una attività terapeutica che  giustifichi   un  ampliamento  delle  ricerche  scientifiche  per ogni  singola  sostanza.

Invece è assodato che l'Uncaria Tomentosa risulta efficace nei processi infiammatori e come immunostimolante, il che significa che tra le sue componenti si crea un meccanismo di potenziamento causualmente  generato dalla  natura.

PARTI della PIANTA
Quello dei principi attivi non risulta, dunque, l'unico cammino e non è sempre il migliore. Perciò, non bisogna dimenticare che quella della composizione chimica di una pianta non è nemmeno una questione da  considerare così superficialmente,  per parlare delle sostanze chimiche che la compongono.    E' anche necessario considerare quale parte della pianta è stata esaminata e in quale momento venne prelevato il campione.   

La superficie della nostra lingua è un vero e proprio laboratorio chimico che ci permette di analizzare la composizione di ciò che mastichiamo e deglutiamo. E perciò sappiamo che la composizione chimica delle foglie del mais è diversa da quella dei grani della pannocchia. Hanno un sapore diverso... Sono diversi ! 
E la differenza è dovuta al  fatto che hanno una differente struttura.

Ci sono piante in cui la differenza chimica tra le diverse parti anatomiche è così grande che i loro effetti biologici possono essere anche marcatamente diversi.
Il cosiddetto "pinon colorado"  (Jathropa curca), della selva di Pucallpa, in Perù, ad esempio, contiene nelle sue foglie delle sostanze che possono provocare il cancro negli animali di laboratorio; mentre i suoi frutti contengono sostanze anticancerogene !   
La patata, la comune patata (Solanum tuberosum) è, a sua volta, un buon esempio: la sua radice ha salvato il mondo da terribili carestie; ma il suo frutto contiene sostanze velenose che contribuirono al lungo  rifiuto che incontrò  la  patata   in   Europa  fino  a  che  Parmentier  mostrò  a  tutti  che  si  trattava  dì  parti  diverse anche  se  all'interno   della   stessa   pianta   !

VARIAZIONI  CHIMICHE
Inoltre, la composizione chimica cambia a seconda del grado di maturazione.   
La maturazione è,  essenzialmente,  una  serie di   variazioni  progressive  nei  legami  intimi delle diverse parti  della pianta.
Ecco che un frutto verde è acido o amaro e diventa dolce quando matura. Le variazioni nella  sua  struttura  chimica   lo   rendono  accettabile al   laboratorio  delle   nostre  papille  gustative.

E l'uomo si occupa anche, con l'esperienza, di cambiare la composizione di una pianta mediante il calore. 
La inforna, la arrostisce, la cucina, la bollisce e le cambia la chimica per renderla più accettabile come alimento.
E'  la grande differenza tra una zucca o una  mela cruda ed una cotta, che io si creda o no.
Ci sono zucche e zucche... mele e mele...    L'importante è saperlo.
Per queste ragioni, quando si parla di una pianta medicinale, non è lo stesso dire che se ne usa la radice, la corteccia, il  legno, le foglie,  i frutti, i fiori, eccetera. Può esserci molta differenza  !   
Inoltre  il   linguaggio  utilizzato dagli  informatori  primitivi delle fonti etnobotaniche deve essere tradotto  con grande prudenza. Spesso, il vocabolo "radice"  non significa quello che voi, io stesso ed  i  nostri amici botanici interpretano come organo anatomico sotterraneo della pianta in questione. "A volte (e questo mi è capitato, ancora una volta, proprio ultimamente in Africa con l'erborista tradizionale  Evaristo) "radice"  ha  un senso più  letterario e  poetico... Significa    "la cosa più importante,  essenziale,  quella che da origine a tutto l'effetto...". 
 E se un guaritore o un erborista delle selve ci parla dì "radice" può darsi che si riferisca alla corteccia o al tronco, e lo dica in buona fede, perché è li che lui vede la "radice della questione".  
Se si acquista una porzione dì "ayahuasca"    (una pianta allucinogena:    Banisteriopsis Caapi) al mercato di Tarapoto,  con tutta  naturalezza viene proposto un pezzo di tronco come  radice.  E' li la “ radice” dell'effetto !     
E se si va nel bosco a raccogliere la radice di un certo vegetale, sarà una impresa titanica trarre da una pianta enorme quella che il grammatico e il botanico definiscono radice.     Non bisogna esagerare,  dunque,  con certe ambizioni  semantiche...    
Per il guaritore dei boschi o delle montagne, radice e tronco sono: in questo caso, più o meno la stessa  cosa... 
E  non  è  lo  stesso dire  che  si  tratta  di  segatura  o  di  polvere  di  foglie  o  del  polline oppure del frutto macinato.  
Puo’ essere molto diverso !
Non e’ lo stesso dire che si tratta dello stesso prodotto  naturale,  veramente  naturale...  appena colto. 
E'   necessario  sapere  come  si   può ottenere  il  meglio: seccato, bollito,   cucinato, fermentato,  polverizzato, distillato, macerato in alcool, in acqua, In vino, o che so io. Non è lo stesso come non sono la stessa cosa i fagioli crudi e quelli cotti con la pasta.
La chimica è diversa in cose tanto semplici ed è ancora più diversa quando si  tratta di problemi  di salute.

L'ERBORISTERIA del PASSATO
Se si sfoglia un libro di farmacia degli inizi del XIX secolo, non bisogna sorprendersi di ritrovarvi  la  descrizione   farmacologica   di   moltissime   piante  medicinali.    
Queste costituivano la base della terapia quotidiana, una  eredità viva delle farmacie  del   XVIII secolo,  dove  le eleganti ed elaborate ampolle di porcellana contenevano centinaia  di  prodotti secchi provenienti dai giardini medicinali  (giardini  dei  semplici) dei conventi e delle case di cura di tutto il mondo civilizzato.    
Questa farmacologia vegetale, base indispensabile del trattamento più sofisticato di  allora, si accompagnava  alle conoscenze impartite nelle Scuole di Medicina,  presso  la Cattedra di  Botanica   Medica,  un  corso essenziale  per la  pratica  della  scienza  curativa.  Il grande  naturalista Antonio Raimondi fu Maestro di Botanica Medica, ad  esempio,  del paradigmatico  Daniel  Carriòn, martire della medicina   peruviana.
Si è cercato di comprendere le ragioni per cui la più antica delle medicine sia stata dimenticata.  Si  può  affermare che la fitoterapia  non  ha avuto alcuna possibilità di riabilitazione dopo l'inizio del suo declino, collocabile attorno al  1820. Ma prima di tale data,  nei secoli diciassettesimo  e  diciottesimo,  essa   conobbe la  sua  "età  dell'oro".
Non si vuole qui tracciare la storia della fitoterapia nella antichità, dal momento che ciò è già stato fatto da altri  in  modo eccellente, ma si  desidera semplicemente sottolineare i  vertici di entusiasmo suscitato, dal sedicesimo secolo in poi, da tutto quello che riguardava le piante.
Il diciannovesimo secolo aveva quindi ereditato lavori appassionati e anche deliranti di autori che avevano attinto agli antichi testi e ai libri di magia,  nel tentativo di ricercare nuove cure con  i "semplici1'.
Ovunque esagerazioni e affabulazione: il diciannovesimo secolo, da un punto di vista medico,  non erediterà dai secoli  precedenti  che una  lunga serie di prescrizioni terapeutiche a base di  piante, riferite a situazioni  patologiche vaghe e mal descritte,  deformate  inoltre  in un'ottica  superlativa  che   falsa   totalmente   i   risultati   descritti.
Per questi eccessi  e  per l'assenza di  rigore sperimentale, in  un'epoca  in cui uomini come Claude  Bernard infondevano  uno  spirito nuovo  in  ogni  branca della medicina,  la   fitoterapia  trova il  diciannovesimo  secolo   scettico,  sprezzante  e  mal  disposto  nei   suoi   confronti.  E'  stata sufficiente l'azione di  alcuni  granai  "baroni   del  tempo  per  assestarle  il  colpo  ai  grazia.
Eppure  avrebbe  potuto riprendere il posto che le compete di diritto nella terapeutica;  per ciò sarebbe   bastato che  un insegnamento metodico della fitoterapia, partendo da zero,   avesse ripreso l'insieme delle osservazioni e delle pubblicazioni precedenti secondo   tecniche sperimentali rigorose.    
Sarebbe stato, poi, necessario utilizzare le scienze  fondamentali (botanica  e  scienze   naturali, chimica e fisica) come  insegnamenti  di  base  su  cui  strutturare  ed espandere  la fitoterapia. 
E'   noto,   invece,  come  l'eliminazione dello  studio  di  queste  scienze fondamentali,  considerate  presuntuosamente come accessorie,  abbia  ucciso  nello stesso  tempo sia  la fitoterapia sia  un vasto  campo  di  interessante  ricerca.

PRINCIPI  ATTIVI
Dalla metà del XIX secolo iniziò a svilupparsi in Germania ed in Francia un enorme impulso per la ricerca chimica che cercò, in primo luogo, di identificare i composti che costituivano i cosiddetti    "principi attivi"    responsabili degli effetti farmacologici di ogni pianta; e presto il passo successivo, la sintesi  ed il perfezionamento della molecola di  questi  principi  attivi, produsse una esplosione di entusiasmo e di attività in tutti i centri di ricerca del mondo.

Lo stimolo così acquisito dalla chimica farmacologica fu talmente fruttuoso che l'uso della pianta medicinale risultò molto presto relegato ad un secondo piano e fu molte volte dimenticato, al punto che le cattedre di botanica medica (adesso in minuscolo) sparirono o passarono  ad essere  considerate  delle sottospecializzazioni  delle  Facoltà  di   Biologia. L'industria  farmaceutica  presto si  sviluppò, offuscando anche l'esistenza dell'agricoltura farmaceutica e, già a metà del secolo scorso, il panorama terapeutico era quasi del tutto occupato  dall'enorme   sofisticazione   della   chimica   e  dell'industria   curativa.

L'abbandono della medicina dei "semplici" si ebbe in due periodi.
Dal 1840 circa fino al 1948.  E' questa l'epoca del    "disprezzo terapeutico", adottata da centinaia di celebri clinici dell'epoca.
Dal 1948 ai nostri giorni, con l'avvento e la produzione industriale dei farmaci di sintesi.   
I medicamenti si avviano a seguire questa strada: è l'epoca d'oro della chemioterapia. Ma a partire dal 1964 cominciano ad affiorare i primi dubbi.
E' indiscutibile che i colpi di maglio subiti dalla terapia galenica sono stati assai violenti, al punto che ci vorranno quasi cento anni prima che riemerga nuovamente.
Ho ricercato con interesse e cura le ragioni per cui il diciannovesimo secolo ha screditato a tal  punto questa medicina millenaria.
Nel 1820, quando Henry Ledere battezza questa linea terapeutica con il nome di "fitoterapia",  essa viene  considerata come  una  scienza  medica  accessoria; i  giudizi   lapidari e sprezzanti condannano  insieme  la  storia  naturale,  la chimica e  la  stessa fisica.
Tutte queste discipline sono proscritte dall'insegnamento medico.

SVILUPPO  e SOTTOSVILUPPO
Questo accadeva, tuttavia,  solo nell'influente realtà dell'umanità sviluppata.   
Le società arretrate,  nella  loro  evoluzione  e  progresso,  continuarono a far ricorso alle  piante  medicinali come soluzione principale nei  problemi di salute; ed il veloce sviluppo della  medicina scientifica e della chimica  farmaceutica  ampliò  la  gigantesca frattura  già  esistente tra le società opulente e le società  pauperizzate.

Si fece così ancor più evidente la differenza tra la medicina moderna e le medicine tradizionali,  non  perché queste ultime scomparirono dalla faccia del  pianeta,  ma perché smisero di  ricevere l'attenzione dei  circoli  scientifici  e dei governi  che  preferirono  concentrare i  propri sforzi in un maggior appoggio all'approccio moderno della cura sanitaria.
Molti furono i fattori che aggravarono questo inarrestabile divorzio.

LA FRATTURA CULTURALE
Da una parte, anziché svanire, le differenze culturali si accentuarono. Paesi come l'India e la Cina, dove la civilizzazione occidentale non era riuscita a penetrare nemmeno negli strati più suscettibili di cambiamento,  poterono conservare l'indipendenza della  propria  cultura. Anche le sfere sociali più alte, con le quali gli invasori occidentali entrarono in contatto, si mantennero ferme di fronte all'ondata distruttrice della cultura intrusa.   
In quei Paesi, le medicine tradizionali non abbassarono mai il capo e continuarono ad essere praticate dal popolo e dalla classe dirigente. In altri  Paesi, come il  Messico, il Perù,  il Guatemala e alcune regioni dell'Africa  (ad  esempio,  proprio i  Monti  Pare) dove si formarono culture sufficientemente forti, ma dove la classe dirigente arrivò a soccombere davanti  alla cultura  invasora,  le medicine tradizionali trovarono rifugio nel popolo sottomesso, mentre si formava uno strato piu’ o meno forte e più o meno equilibrato di modernismo occidentale.   
In quei Paesi si aprì una forte breccia tra le due culture, nel cui seno proliferarono i conflitti e le correnti contrarie che impedirono e continuano ad  impedire  una  omogenizzazione culturale.  Su  quel  disordinato terreno  separatista si  sono avuti adattamenti e rifiuti, compromessi e conflitti, e lì  la salute e l'educazione sono state  spesso  il  motivo  centrale  delle  differenze.

Infine, in quei  Paesi ove le antiche culture non sopravvissero,  l'omogenizzazione culturale intraprese  un  corso progressivo  che  facilitò l'incorporazione  alla  cultura  occidentale.
Un altro fattore che favorì la sopravvivenza delle Medicine Tradizionali fu la complessa orografia di alcuni Paesi o di alcune aree.  
Il Tibet, la Mongolia, il Perù, i Monti Pare della Tanzania, sono un esempio potente di questo problema, con la loro variegata geografia e la loro resistenza fisica  strutturale  alla  logistica  moderna, che  impedisce  la  libera  comunicazione e si oppone  ad  una  modernizzazione  omogenea.
Infine, un altro fattore, forse il più importante ma anche dipendente dai due precedenti, è quello economico. 
Ai problemi culturali e logistici è necessario sommare gli alti costi dei metodi moderni di cura della salute, i quali rendono impossibile l'estensione dei servizi occidentali ad un'alta percentuale delle  popolazioni  pauperizzate nel  difficile cammino verso lo sviluppo.
Come conseguenza di questi fattori e di altre circostanze che per ora vengono tralasciate, 'le medicine tradizionali, le forme di cura degli erboristi, dei curatori, delle levatrici di campagna e degli aggiustatori di ossa, diventarono presto corpi di dottrina isolati  nei retrobottega di molti paesi.   
Le riunioni ufficiali, le cattedre universitarie e i testi di medicina dimenticarono,  in breve tempo, tutto quello che quelle medicine conservavano, e così la frattura continuò a  crescere.
Agli inizi di questo secolo lo studio delle medicine tradizionali era un passatempo per gli antropologi, quelle strane persone che si avventuravano per giungle e montagne allo scopo di verificare come vivevano quelli che stavano dall'altra parte del mondo.   
Gli aspetti medici delle culture esotiche che essi studiavano, spesso si riducevano ad un breve capitolo che andava ad aggiungersi  al nucleo principale dei loro scritti nei quali troneggiava  l'antropologia culturale, l'artigianato,  la  sociologia,  l'economia  ed  altre  preoccupazioni  considerate  più  importanti.

Ma ritorniamo in Occidente, al nostro insegnamento dell'epoca.
Ne risultò, con quei vuoti nell'insegnamento, una profonda ignoranza da parte delle generazioni mediche dell'epoca, delle molteplici risorse che potevano essere offerte dalla fitoterapia. Se la storia naturale fu tra le altre discipline decapitate dai  dirigenti, si poteva tuttavia ritrovarne traccia  nell'insegnamento sotto forma di zoologia  medica,  che però venne prevalentemente  indirizzata  allo  studio  delle  malattie  parassitarie.    
Quanto  alla  botanica medica, è noto che fu per lungo tempo ignorata e, se per caso, uno studente in medicina fosse stato tentato di   studiare  qualche  pianta,  avrebbe  incontrato  molte  difficoltà   nel  farlo.
Quali idee potevano crearsi le giovani menti dei medici sulla terapia galenica ?    Essendosi la stessa Facoltà di  medicina fatta carico di inculcare tanto ironico  scetticismo e tanti dubbi  nei confronti di questa terapia,  si  può comprendere agevolmente perché il     "razzismo antifitoterapeutico"  e  il  disprezzo  di  ogni terapia  naturale  siano  stati  così  tenaci.
L'ignoranza e la presunzione di coloro che avrebbero potuto insegnare i "semplici" faceva sì che essi pensassero di  derogare ai  compiti della scienza passando dall'olimpo della grande clinica alle umili lezioni di terapia naturale.
Sino al 1964, data del cambiamento nella storia del pensiero fitoterapeutico, disprezzo e ignoranza  non  fecero  altro  che  aumentare.

INCOGNITE e RISPOSTE
Sempre restando nel tema delle piante medicinali, certi termini di riferimento non sono tanto disparati.    L'applicazione topica di una pianta o della sua preparazione galenica su di una ferita infetta (come insegnarono e insegnano molti erboristi indigeni agli arroganti  "conquistatori") può molte volte contribuire al controllo dell'infezione; ma ora si sa che il successo dipende molto da come si riesce a fare in modo che i principi antimicrobici della pianta possano entrare in contatto con i germi infettivi.   
La presenza di tessuti irraggiungibili, di coaguli, secrezioni ed altri liquidi biologici della ferita, delle reazioni locali di acidità o di alcalinità, eccetera, può fare in modo che l'azione comprovata "in vitro" nel laboratorio non sia efficace nella pratica.   
E quando non si tratta semplicemente di una ferita ma di una infezione sistemica, il problema si complica esponenzialmente. Si paria di "biodisponibilità", cioè della capacità di un farmaco di giungere alle concentrazioni adeguate al settore o al livello di  un tessuto vivo dove possa risultare efficace. Arrivare  efficacemente al  vero campo di  battaglia  è l'essenza  della  sua azione  "in vivo".

"IN VITRO" ed "IN VIVO"
A questo concetto di biodisponibilità (dell'azione "in vivo") è necessario aggiungere che le notizie sull'azione "in vitro" si riferiscono in generale a forme diverse da quelle di una pianta medicinale: impiastri, infusioni, macerazioni, decotti, comprendendo i preparati a  base di alcool, etere, cloroformio,  aceto,  eccetera.  
Più  oltre,  già  nel  mondo  sperimentale del  vetro, qualcuno può elaborare chimicamente la materia prima per determinare i principi attivi. La determinazione di  quest'ultimo punto è, generalmente,  il prodotto di  un processo complesso e molto prolungato giacché l'azione biologica comprovata "in vitro" o "in vivo" può essere dovuta ad uno o a vari composti chimici che con sicurezza si accompagnano ad una vasta gamma di altre sostanze chimiche,  la cui  azione  biologica  può  essere  indesiderata.

Per questo, quando si legge o si commenta una scoperta di laboratorio ("in vitro") sull'azione utile di una pianta, è indispensabile essere molto cauti prima di  lanciarsi entusiasticamente  ad un  uso indiscriminato  nella  pratica  medica.

La questione dei "principi attivi" di una pianta medicinale è molto più complicata di quello che appare a prima vista.    E' come innamorarsi di una donna perché ha begli occhi o di un uomo perché ha un buon conto in banca.    E' necessario considerare bene quali sono le altre componenti  di  quella  personalità.

Dire, ad esempio, che la nicotina è il "principio attivo" del tabacco è quasi una fesseria. Se si introduce un milligrammo di nicotina in vena si va incontro a morte istantanea.   
Ma quando non si parla di nicotina pura, bensì di fumo di tabacco, si deve ricordare che l'esame chimico di quel fumo ha mostrato la presenza di cinquecento (ed oltre) sostanze diverse  (catrame, piridine,  basi  nitrogenate,  composti  terpenici  ed  isoprenici,  acidi  volatili,  sostanze fenoliche, forforal, acroleina ed altro, assieme ad altri alcaloidi).   
Alcune di queste sostanze ed il fatto che la via di somministrazione sia polmonare e non endovenosa, fa sì che l'azione tossica della nicotina (pur non smettendo d'essere nociva) non sia tanto violenta. E se al tabacco si levasse la nicotina, sarebbe il catrame a provocare il cancro.

Lo stesso avviene con l'oppio...  Quale è il principio attivo dell'oppio ?   
Il lettore dirà: "la morfina" e non sbaglierebbe. Ma dimenticherebbe la codeina, l'apomorfina, la papaverina, la tebaina e circa venti altri alcaloidi presenti nell'oppio, resina del papavero, i quali hanno una azione specifica  su  diverse funzioni  dell'organismo umano.

Una ragione supplementare per la sparizione della terapia galenica fu l'infatuazione per l'estrazione da una pianta del suo principio attivo. Solo questo, una volta isolato, diventava credibile per i clinici, e la pianta nella sua totalità era relegata nel dimenticatoio. 
C'era l'abitudine di considerare la  pianta in  funzione di una sola sostanza terapeuticamente attiva, dispersa  in  una massa di  costituenti  accessori e inutili.   
Questi  principi attivi furono gli alcaloidi ed i glicosidi.  Perché dunque prescrivere le piante nella loro totalità, quando sono solo i prodotti attivi in esse contenuti ad aver dato prova della loro efficacia ?   
Semplifichiamo le prescrizioni: invece  di   somministrare   la  totalità  della  pianta,   prescriviamone  solo l'essenziale  !

Orbene, voler utilizzare un solo componente e disdegnare la pianta completa è stato, l'abbiamo scoperto e provato,  un grossolano errore.   
Possiamo  paragonare l'azione di una molecola morta a quella di un principio biologico secreto da un vegetale vivente ? 
L'una, autentico "cadavere",  l'altro vera  "fonte biologica", concepita  per fornire  un  prodotto  modellato a sua  immagine,  in cui  miliardi e miliardi di  informazioni genetiche sono finalizzati  alla formazione di  un'essenza  o di  un  futuro estratto.

Da ciò si deve dedurre, da una parte, che quando si parla dell'azione di una pianta medicinale non  necessariamente si  sta  parlando di  una determinata sostanza chimica che si  scopre in seguito ad analisi di laboratorio.  Si può parlare anche della somma algebrica delle varie azioni dei diversi composti chimici che la integrano e che giungono o meno alle varie zone dell'organismo dove  possono avere  effetti  positivi  o  negativi,  desiderati  o  indesiderati,  per la salute e  la   malattia.

Si deve dedurre anche che una pianta che possiede diversi composti chimici nella propria struttura può anche avere diverse azioni  mediche in caso di diverse malattie.   
Nella  nostra epoca moderna, nella quale si cerca di purificare tutto, quando si  sente che un farmaco serve per cinque o sei cose diverse e senza relazione tra loro, viene qualificato un po' spregiativamente come  "panacea" e gli viene tolta fiducia.   
Il fatto che  una pianta possa servire per i  reumatismi, per il  cancro,  per l'ulcera, come contraccettivo,  anche per il diabete,  la sifilide e l'AIDS, risulta un po'  sospettoso.    Probabilmente, si dice, si tratta di una volgare cialtronata di qualche disprezzabile guaritore che vuole arricchirsi a spese dell'umanità sofferente.    A volte non è così... Spesso ci sono piante che hanno vari principi attivi, ognuno dei quali produce un’effetto differente sull'essere umano.    Si deve anche dedurre che in  una stessa pianta possono coesistere composti  chimici  la  cui  azione congiunta  può esercitare  un'azione equilibrata  in favore della salute, cosa  che può vanificarsi purificando uno dei componenti.    Ci  sono dozzine di esempi drammatici  di  piante  innocenti che sono state condannate all'oblio terapeutico  per colpa  di  dogmi  farmacologici  di  questo tipo.

Perché dunque volere a tutti i costi rinchiudere la verita terapeutica in una sola formula ?   
La vita si svolge grazie a un  mosaico di reazioni enzimatiche. Lo stato patologico è una immagine dello stato fisiologico,  ossia è complesso, polimorfo e multidirezionale.    
E'  illogico  pensare che l'azione di una sola  molecola sia sufficiente a regolarizzare una  miriade di reazioni  perturbate.
Lo stato patologico non può essere trattato da un solo agente chimico, poiché lo stato patologico  stesso non  è  monomorfo.

In compenso possiamo ammettere, anche per deduzione logica,  l'effetto terapeutico composito delle piante. 
Una pianta,  sovente, è formata da una  moltitudine di costituenti (duecento e più per l'Eucalipto, ad esempio). Ciascuno di essi interviene a livello delle componenti  primarie del  disordine,  affinché la risultante delle loro singole azioni  ottenga di ripristinare lo stato fisiologico.  Si comprende così perché vengono prescritte diverse piante contemporaneamente per il trattamento di una unica sindrome.  Esse entrano tutte in sinergismo per rimettere in movimento una funzione rallentata o addirittura arrestata.   
E'  stato chiamato "sinergismo fitocinetico" questa azione simbiotica dei componenti  di  uno stesso vegetale.
Come  non  riconoscere  alla  pianta in toto   delle qualità terapeutiche superiori a quelle di un solo costituente,  a  maggior  ragione  quando quest'ultimo  sia  stato  sintetizzato  artificialmente  ?
Dopo adeguata riflessione si è inoltre giunti a concludere che l'utilizzazione dei principi attivi, senza separarli dal contesto vitale del vegetale con cui erano combinati, moderava la brutalità della loro azione.   
Il totum della pianta è quasi sempre più efficace del suo costituente principale. Un solo agente attivo isolato agirà come un solo agente terapeutico, ossia su di un numero  ridotto di  sintomi  della  malattia.

Le piante nel loro totum presentano una potenzialità di azione molto varia, ed è questo che spiega il risultato più globale e più completo esercitato su quello che viene chiamato il "terreno" del   malato.

C'è anche un'altra cosa da tenere in considerazione e che è necessario tenere presente... faccio  degli  esempi: un certo té messicano, che i botanici chiamano Chenorndium   ambrosoides, è un eccellente farmaco per combattere i vermi intestinali.   
E' efficace ed il suo impiego non ha grandi complicazioni.  Ma i chimici scoprirono che l'aceto di chenopodio,  il suo estratto distillato, il quale contiene un principio attivo chiamato ascaridol, era un rimedio sicuro contro i vermi e ne raccomandarono l'uso universale.    Come conseguenza del suo uso, morirono molti bambini perché è un prodotto tossico.   
E come conseguenza di questa tragedia, tutti i libri di Farmacologia moderna  proibiscono  l'uso del té messicano perché  potenzialmente  pericoloso, nonostante  il  té   messicano   non   abbia   mai   ucciso   nessuno.

Desidero ora citare un  mio caso personale:
Nel  quartiere  più  problematico  di  Lima,  in  Perù,  che viene  chiamato  la  Parada, ai  piedi della collina di  S. Cosine,  riuscii a  porlo  in  essere  nella  Missione  Cattolica  della   Sagrada    Familia, un grosso ambulatorio  medico  per  la  diagnosi   e  la  cura  di   bambini  tubercolotici; una  patologia  assai diffusa  in   quell'area   cittadina,   molto  povera  e  priva   di   tutto.
Purtroppo mi arrivarono  solo soggetti  cronici, ormai  insensibili  agli  antibiotici  (avevano più volte,  per  motivi  economici,   interrotta  la  terapia,   diventando  per  questo   motivo  non   reattivi): I medici degli  ospedali  metropolitani   preferivano  usare  i   pochi   medicinali   forniti  dal  governo  per persone  che  reagivano  ad   essi.
La situazione  era grave  per  il  nuovo Centro Medico "S. Josè": avevo da  curare più  di cento bambini  ammalati   di   tubercolosi,   refrattari   ad  ogni   forma   di   terapia   chimica.
Decisi di rivolgermi alle piante medicinali.
Da  un  anziano  esperto  botanico,  un   missionario  salesiano  polacco,   Padre  Edmundo  Tzeliga, venni  a  sapere   che   gli   antichi   Incas   usavano  una   pianta   particolare  per  curare  fa  tubercolosi, chiamata   Cboque   Tacnrpo     (Spergularia   ramosa)  e  che  cresceva  solo   nella  zona  di   Paucarlambc (a circa  3300  metri  di   altezza),   nel   Departimento  di   Cusco,  una località ancora selvatica e rischiosa per i suoi percorsi. Decisi di andare.
Il viaggio fu  lungo  e  avventuroso ma, alla fine,  riuscii  ad  individuare  la  pianta,  a  portarne circa due chilogrammi  con  me  e  ad  iniziare  le sperimentazioni  su  soggetti  cronici.
Cinque  persone  furono  portate a  guarigione  con  grande  meraviglia  (e  anche entusiasmo)  degli esperti del  settore,    i  giornali   e  le  riviste  peruviane  ne  parlarono  a  lungo...
I chimici  ufficiali,  (suppongo  pieni di  rabbia e di  invidia)  si  misero subito al  lavoro  per individuare il principio  attivo".    
Dopo  qualche  mese, attraverso  una "pubblicazione scientifica" essi dichiararono che il contenute chimico di questa pianta non era in grado di agirà sulla patologia tubercolare.
Avevo capito quale era stato il  loro errore, ma io continuai a curare i  bambini secondo i mio criterio,  con  ottimi   risultati.    
Comunque la Spergularia ramosa venne ignorata dalla Scienza ufficiale.

Voglio citare ancora un’altro esempio: la melagrana
La buccia  della  melagrana  (Punica  granatum),  frutto  biblico, è  utilizzata  da  molto  tempo  come buon rimedio  per il  verme  solitario  (Tenia   solium).    
Mai  nessuno  è  morto  per averne  consumato,  a parte le  indesiderate  tenie.  Ma, un  chimico  francese  chiamato   Pelletier  (il   quale  scopri   anche  il chinino) si  rese  conto  che  le  tenie morivano  a  causa  di  un  "principio  attivo"  della  melagrana che poi  tu  chiamato   pelletierina.    
Pero  questo  gran  ritrovato era tossico  non  solo  per le tenie, ma anche per  i  bambini,  e  la  melagrana  andò  incontro  alla  stessa  sorte  del  té  messicano  e  del Choque Tacarpo: espulsa  dalla farmacopea.

Gli esempi  potrebbero continuare ma è  meglio fermarsi qui.

ANTROPOLOGIA MEDICA
Mi capiterà spesso di  parlare del  Perù  perché è stato  in questo  Paese  che  ho avuto  modo di svolgere  le  mie  affascinanti   esperienze  erboristiche  e  di  aver  conosciuto   uomini  di   grosso spessore   culturale.

Nel  1920 apparve  il  lavoro  pioneristico  di  Hermilio Valdizàn  e  di  Angel  Maldonado.
Questi  illustri  precursori  non solo divertirono i  loro  contemporanei  col  loro agile e ben pianificato studio  sulla  Medicina   Popolare  peruviana;  pubblicando in questo  periodo  aprirono una strada fertile e profonda in un settore fino ad allora vergine e divennero, quindi, i grandi  pionieri di  una  scienza  che  allora  non  esisteva:  L'Antropologia  Medica.

Con mentalità  provinciale  e  intimidita,  è stato  detto da  più  persone,  questi  autori  iniziarono tali studi in Sud America.
Non  solo è cosi,  ma la  realtà è  che Valdizàn  e Maldonado  utilizzarono il Perù come  base  per  iniziare  in  tutto  il  mondo  un'opera  gigantesca  che  solamente  adesso  inizia ad essere riconosciuta come la  risposta a gravissimi problemi  riguardanti  la  salute delle nazioni di tutto il mondo sottosviluppato.

Il vero sviluppo dell'Antropologia Medica si produsse solamente nella seconda metà del secolo scorso.   
Come è stato detto, durante  i  primi cinquant'anni, nella   letteratura  scientifica esisteva solo  la descrizione fenomenologica delle credenze e delle pratiche curative di  un piccolo numero di società primitive che erano state oggetto della visita o dello studio di antropologi i quali, collateralmente,  registrarono osservazioni mediche qui e là. Gli storiografi della medicina di allora segnalavano già la sopravvivenza di antichi principi nei gruppi umani isolati o in società in via di sviluppo culturale.   
Solamente dopo la seconda guerra mondiale alcuni  ricercatori iniziarono a lamentarsi della mancanza di informazioni mediche nella  letteratura  antropologica;     e William  Caudill  scrisse  la  propria eccellente revisione sull'Antropologia  applicata  alla  Medicina  nel  1953,  quando ormai  il  libro  di  Valdizàn e Maldonado era già sorpassato.   
Anche allora, il legame tra le due discipline aveva molto di esotico   e  curioso.

Ora sono passati circa sessant'anni dalla magnifica monografia di Caudill e in queste decadi si è assistito ad  una  vera  inondazione di conoscenze e di  cambiamenti  significativi,  sia  nella Medicina che  nella Antropologia.   
Perciò,  il lavoro pioneristico di Valdizàn e Maldonado diventa un gioiello bibliografico che deve occupare,  più  che mai  meritatamente,  un  luogo  preferenziale nelle nostre biblioteche.    Da allora i lavori di Steven Polgar su    "Salute e comportamento umano: aree di interesse comuni alla Scienza  Medica e alla Scienza  Sociale", di Norman Scotch su "Antropologia   Medica" e di Horacio Fàbrega sullo stesso tema, ci permettono di avere una eccellente visione  panoramica  di  questo  importantissimo campo  del  sapere  che  era  coltivato con efficacia e dedizione dai  precursori peruviani  nel 1920, quando erano in  pochissimi a pensare seriamente ad un  argomento che pareva sterile o, al  massimo, esotico ma non fruttuoso.

Ciò non dovrebbe sorprendere quelli che sono stati ascoltati a proposito dei problemi di biculturalismo,  ove  i  conflitti   interculturali  sono  talmente  naturali  da  impedire  la  sedimentazione delle idee e degli  obiettivi  più facilmente coltivati  in ambienti  monoculturali.  E ciò, che spiega la lentezza con cui  una disciplina arriva a svolgere un ruolo coerente  in  una  società biculturale, spiega anche il fatto che sia stato in Perù ove scoppiò la prima scintilla che incendiò l'entusiasmo per questi studi in tutto il mondo.   
Non è strano che in un Paese come il Perù si sia formato così presto l'entusiasmo per lo studio dei problemi che ora sono parte dell'Antropologia Medica.    
Fino  alla fine del  secolo  scorso,  la concentrazione dell'attività  scientifica  nei  Paesi monoculturali d'Europa faceva sì  che i  problemi di salute in altre culture costituissero avventure speculative senza  molta  importanza  pratica. E'  precisamente  nelle  aree  di  transculturazione nelle società biculturali ove si  manifestano le necessità e le applicazioni  pratiche delle conoscenze che    Valdizàn  e  Maldonado ricercavano con  pazienza.    
E per questo, necessariamente, fu  un Paese come il  Perù del  1920 ove si  sarebbero manifestati gli  interessi primordiali.   
Fu nel Perù del 1920, e oggi è in tutto il mondo sottosviluppato, dove si sentì l'esigenza profonda  dell'Antropologia  Medica; e oggi,  nei  circoli  accademici,  lavori  come quelli di Valdizàn e Maldonado hanno smesso di essere considerati, come avvenne invece in quel tempo,  prodotto  di  mentì  avventurose e curiose le quali oltrapassavano  frontiere  invadendo campi  sconosciuti  per illustrare con  dettagli  pittoreschi  la visione  panoramica  della salute e della  malattia infermità nelle società  biculturali.   
Oggi,  lavori  come quello del  1920 significano il riconoscimento di  una importante area di  interessi convergenti  da  parte di antropologi e medici.

Malgrado il declino, in occidente, la fitoterapia è sempre stata difesa da un certo numero di "franchi  tiratori"  entusiasti  e convinti,  che si  rifiutavano di  vederla  completamente dimenticata. Jean Valnet è uno di quelli più vicini al nostro tempo.

Ma tutti noi conosciamo Henry Ledere, medico di campagna, che esercitava nella Thiérarche in  un piccolo villaggio sperduto. Appassionato cultore di  libri  antichi, ellenista e latinista insigne, egli aveva compreso che i nostri padri si erano sempre trovati bene usando i "semplici".

Con la collaborazione dei suoi contadini e di vecchi guaritori, elaborò e sperimentò una efficacissima ed utile terapia. 
Fu un trionfo e la gente accorse da ogni parte.  Egli aveva acquistato un tale ascendente che,  allo scoppio della tempesta  del  1914,  venne,  con  sua grande sorpresa, nominato medico dello Stato Maggiore del generale Foch.   
Come era stato scoperto dal futuro generalissimo ?  Henry Ledere non l'ha mai saputo.

Tuttavia, all'epoca di questo medico erborista (intorno al 1920), i venditori di piante continuavano a fare buoni affari. In pratica, se le piante avevano perso il loro credito presso le facoltà di  medicina,  il  buon senso popolare non  le aveva mai  abbandonate completamente.

Le facoltà di farmacia saranno i templi dove si praticherà questa religione, ossia la fitoterapia, interdetta nella clinica. I custodi della "sacra fiamma" rimasero i moltissimi studiosi, che continuarono le ricerche e gli studi sui "semplici".   
Allorché la fitoterapia riemerse nuovamente, essi furono i primi a mettersi a disposizione per rendersi utili in questo lavoro di riabilitazione delle  piante  medicinali.  I  laboratori di ricerca,  durante tutta  questa  "traversata del deserto", hanno scoperto sempre nuove piante medicinali e ne hanno fatto una analisi chimica   dettagliata.

Malauguratamente, la maggior parte di certi lavori fondamentali è rimasta per lungo tempo senza seguito per colpa dei clinici. 
I ricercatori fondamentalisti dei laboratori di ricerca medica non  trovavano  infatti  medici fitoterapeuti disposti a sperimentare  le  sostanze  scoperte.

Non vi erano gli agganci, le cinghie di trasmissione, sino al malato. Talvolta la virtù terapeutica di una pianta è così evidente che da luogo direttamente alla nascita di una specialità farmaceutica, nella quale però sarà spesso mescolata con altri prodotti chimici. Altre volte servirà da punto di partenza,  come principio di base, sul quale innestare molecole chimiche di sintesi.  E' quello che viene denominato "emisintesi".   
Questo comportamento si consolida sempre più,  se si considera che oggi ti 50% delle specialità farmaceutiche europee è prodotto sulla  base di  questo principio.
Un altro procedimento per fabbricare medicamenti è la ricerca nelle piante medicinali del loro principio attivo  e  la  sua  successiva  preparazione  per sintesi  chimica.

Non ritornerò  nuovamente su  ciò che  penso di  questo procedimento e  sulle sue virtù;    le ragioni sono state ampiamente illustrate, ma torno a ripetere che si tratta di "cadaveri terapeutici".

Desidero riportare un aneddoto che riguarda il generale Foch e Henry Ledere che può far riflettere in  che condizioni si trovava la fitoterapia  nella valutazione  e  nella considerazione di numerosi   importanti   personaggi.
K. Foch disse a Ledere, quando gli fu presentato, queste semplici parole: "Mi dicono che siete un medico onesto, abile nell'uso delle buone piante, ed è per questo che ho voluto aggregare al mio seguito; non crediate tuttavia di potermi annoverare tra I vostri clienti; io non conosco che due piante per mio uso e consumo:   il caffè nella mia tazza e II tabacco nella mia pipa...    ed è tutto !   
Comunque buona fortuna ! ".

Ledere, con  la sua intelligenza, la sua umanità e la sua dedizione, seppe ben presto radicare la fitoterapia nell'ambiente scettico dello Stato Maggiore:    fu la sua prima esperienza di pubbliche   relazioni.
Tratto da: “Il canto degli Stregoni” – By
dott. F. P. Iaccarino

vedi:  PRODOTTI naturali con indicazioni UTILI per i principali MALANNI  +  MODALITA' di PREPARAZIONE dei Prodotti FITOTERAPICI

Ricordiamo anche che le alterazioni degli enzimi, della flora, del pH digestivo e della mucosa intestinale influenzano  la salute,  non soltanto a livello intestinale, ma anche a distanza in qualsiasi parte dell'organismo.

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vedi anche: Medicina Quantistica
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